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    Home » Articoli » La Valle d’Aosta del 1892, con gli occhi di Matilde Serao e dell’Italia
    Nos Alpes alla scoperta…

    La Valle d’Aosta del 1892, con gli occhi di Matilde Serao e dell’Italia

    Caterina PizzatoCaterina Pizzato23 Agosto 2025
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    En Vallée d'Aoste, à In Valle d'Aosta a Gressoney-Saint-Jean Villa Peccoz nel 1902 (c) CC BY-SA Italia Fondazione Torino Musei (1871–1938) Wikimedia Commons
    A Gressoney-Saint-Jean Villa Peccoz nel 1902 (c) CC BY-SA Italia Fondazione Torino Musei (1871–1938) Wikimedia Commons

    Nell’osservare l’avvento del primo turismo in Valle d’Aosta, Caterina Pizzato racconta la scoperta nel 1892 e i ritratti successivi di una scrittrice italiana molto nota all’epoca, Matilde Serao, che viveva a Napoli. La lettura che ne emerge è interessante, perché racconta di un processo di appropriazione e di conoscenza nell’Italia unita dell’ex-ducato degli Stati di Savoia, la Valle d’Aosta dopo l’unità d’Italia.

    Tra l’altro, è un periodo difficile, tra crisi economica di fine secolo, uccisione di Re Umberto nel 1901, e rilancio economico e politico nel primo decennio del nuovo secolo, nel giolittismo e nel liberty. Non a caso il viaggio è del 1892 mentre il libretto che ne parla e che lo interpreta ha dovuto attendere il 1908, quando il clima generale più disteso, anche rispetto alla monarchia.


    La scrittrice e giornalista Matilde Serao

    La scrittrice e giornalista Matilde Serao, nata a Patrasso nel 1856 e vissuta a Napoli, fu la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, Il Corriere di Roma (1885), esperienza successivamente ripetuta con Il Mattino (1892) e Il Giorno (1903). Nell’estate del 1892 si avventurò alla scoperta solitaria della Valle d’Aosta, complici sia l’interesse per le attrattività del territorio e per i soggiorni reali, sia il suggerimento del suo caro amico librettista e drammaturgo Giuseppe Giacosa che già la frequentava, in un viaggio a metà strada tra una viaggiatrice del Grand Tour e una moderna e intrepida turista.

    La Valle d’Aosta a quell’epoca godeva di un’incredibile fama, tanto da venire inserita nei programmi di viaggio che toccavano le principali capitali europee come Parigi. In Lettere d’una viaggiatrice (1908) la giornalista narra le sue impressioni sulle condizioni dei mezzi di trasporto, sugli alberghi, sulle attrazioni del territorio valdostano e sulla popolazione e un’analisi storico-antropologica in grado di offrire una visione concreta di come si presentava il mondo alpino all’epoca della Regina Margherita.

    Nelle lettere viene solo indicato il mese, sono volutamente prive di riferimenti temporali al fine di poter aggiungere ulteriori dettagli e avvenimenti importanti sopraggiunti durante gli anni trascorsi tra il soggiorno valdostano e la pubblicazione del libro.

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    Il francobollo dedicato da Poste Italiane a Matilde Serao,nel 1978. Nella prima gioventù, fu per tre anni, dal 1874, ausiliaria telegrafica alle Poste di Napoli

    A Pont-Saint-Martin

    «Nulla vi dicono le tre ore di ferrovia da Torino a Pont-Saint-Martin. O, più tosto, vi ripetono monotonamente l’avvilimento umano nella sua forma più tormentosa che è il viaggio in ferrovia: l’uomo preso, sospinto con modi bruschi e chiuso in una gabbia incomoda dove è solo e quindi abbandonato a una solitudine rabbiosa, o in compagnia fastidiosa d’incognite figure infastidite. Cioè, esser condannato al caldo, alla immobilità, a un fragore che lo assorda, a una polvere che gli dissecca la gola, gli fa bruciare gli occhi e gli annerisce il volto, condannato a non veder nulla del paesaggio, quindi a disinteressarsene completamente, dannato a essere trascinato brutalmente come un baule, come un collo, e buttato via alla stazione di arrivo, con le sue valigie» (Matilde Serao, Lettere d’una viaggiatrice, Roma, Elliot, 2018, p.151).

    Al suo arrivo in Valle d’Aosta, nel mese di luglio, la piccola stazione di Pont-Saint-Martin la accolse in un grande silenzio serale che non le permise forse di vedere il Ponte romano, mai menzionato: il primo albergo che la ospitò fu il Caval Bianco, una piccola casa dal tetto spiovente con le logge di legno e le scale scricchiolanti, una rustica scatola appartenuta ad un’affettuosa e gentile albergatrice dal grande grembiule bianco.

    Semplice, umile, non servile

    «Tutto ciò è semplice, umile, non servile, sovra tutto. Al secondo piano, nella piccolissima stanza occupata tutta dall’immenso letto, odoroso di spigonardo, poco chiudono le porte, eppure il grande terrore delle camere d’albergo, quel terrore che tutti provano, serrandosi a doppio giro, non vi è, non lo sentite. […]

    All’ora stabilita, l’albergatrice vi chiama sottovoce; […] la carrozza è vostra, si parte quando volete, con libertà… e quando ve ne andate, questa albergatrice, che non vi ha affatto scorticato, vi dà la mano; anche suo marito ve la offre, e i bimbi vi danno un bacio» come a screditare lo stereotipo diffuso delle genti rozze e selvagge di montagna.

    In salita verso Gressoney

    La seconda tappa, dopo quattro ore di carrozza, fu un piccolo alberghetto del villaggio di Issime, con un accenno anche alla facciata della chiesa con il Giudizio Universale affrescato. Si tratta dell’Hôtel dei Viaggiatori a Kiamourseyra, sempre di proprietà della famiglia Squindo che l’aveva ospitata al Caval Bianco di Pont-Saint-Martin.

    «Tre ore di ferrovia e circa quattro ore di carrozza per giungere a due terzi di Gressoney; l’ultimo terzo, altre tre ore, si fa sul muletto. Dieci ore… e che importa? […] L’ora è lunga, ma le valli si seguono senza rassomigliarsi più, ora scabre e nere, ora grigiastre e petrose, dai grandi macigni caduti al piano, ora tutte verdi e fiorite. […] A Issime, per salire a Gressoney, […] i due muletti, già bardati, uno per voi, uno per i bagagli, vi vengono a collocare davanti alla porta. […] I due piccoli mulattieri, sorridenti e tranquilli, parlano fra loro, tedesco o francese». L’autrice si riferisce all’uso del töitschu e del francoprovenzale di questi villaggi.

    Per un sentiero prima largo, poi più stretto, poi strettissimo

    «E per un sentiero prima largo, poi più stretto, poi strettissimo, il muletto si avvia, con un passo così gentile, così cauto, costeggiando sempre di un palmo la sponda del fiume, costeggiando i più paurosi burroni, senza mai andare di una linea in fallo. Ogni tanto chiudete gli occhi: l’altezza a cui siete, la strettezza della via, il fragore del Lys che si dirupa nel precipizio, vi danno le vertigini […].

    L’aria si fa sempre più fredda, malgrado l’ora pomeridiana […], dal Gaby al Ponte di Trento la via si fa stretta come il palmo della mano, ripidissima: bisogna curvarsi in avanti sulla cavalcatura per non cadere. […] Ogni tanto, attaccata a una roccia, una casettina e dovunque si può bere dell’acqua, avere una gassosa, o della birra, e ciò in un deserto dove non appare anima viva, dove appena appena il sentiero è tracciato. […] Ma ecco, dopo il Ponte di Trento, in una minuta casa, tre minutissime banderuole tricolori […] la valle di Gressoney aspetta la Regina…».

    Come ci si vestiva a Gressoney-Saint-Jean

    Agli occhi di Matilde Serao il villaggio di Gressoney-Saint-Jean che all’epoca contava circa novecento abitanti (e nel 2020, 812 abitanti, secondo i dati ISTAT) appariva circondato da un paesaggio talmente bello «che niuna colorita parola può rendere, circondato da alte vette e colli e animato dalle floride e snelle gressonesi dalla rossa gonna», descrivendo minuziosamente l’abbigliamento dell’epoca, ben diverso dai salotti cittadini.

    «Qui fa freddo, fa freddo sul serio, come nella fine di autunno nei paesi meridionali […] e la più elegante signora, qui, non può che vestirsi di lana grigia o nera e tutta la sua eleganza si manifesta in qualche gran mantello col cappuccio, vera risorsa alpina contro il freddo e il vento, […] qui spariscono i delicati, i deliziosi cappellini e gli affascinanti, i seducenti, cappelloni: un velo stretto sulla testa e attorno al collo o un fazzoletto di seta messo alla moda gressonese, […] e buone scarpe dalle suole resistenti.

    Così le antiche clienti della Valle, quelle che ci vengono da anni, come la Regina Margherita, adottan subito il costume gressonese, che si son fatte fare da un bizzarro sarto locale, il Doucet, delle gonnelle rosse e dei giubbetti neri. Per gli uomini ci vogliono dei vestiti pesanti, dei grossi mantelli, dei cappelli di feltro, morbidi, le scarpe grevi e i calzettoni. Ah… la montagna è rude, è semplice, è forte, la montagna è austera: essa respinge tutte le leziosità graziose e squisite della pianura».

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    Re Umberto I di Savoia e la consorte, la Regina Margherita, all’uscita della Villa del Barone Beck-Peccoz (c) Public domain, Wikimedia Commons

    Vengono quassù i ricercatori di salute

    A Gressoney soggiornò alla Pensione Delapierre, menzionando anche il piccolo Hôtel Monte Rosa e il villino Peccoz che ospitò la Regina sino al 1904, quando venne ultimato il suo castello in località Belvedere. «La gente che ama i suoi grandi comodi, le ampie strade, gli alberghi all’uso inglese o svizzero, i saloni di lettura forniti di tutti i giornali del mondo, non vi capita a Gressoney. Vengono quassù solamente i ricercatori di salute e pace, portano molti libri, molta carta da scrivere e sovra tutto un desiderio di dormire molto, andando a letto prestissimo, tornando a casa cariche le braccia di fiori alpini, stanchi, […] trovando saporito il pranzo e delizioso il letto».

    L’autrice descrisse dunque le abitudini dei villeggianti, quali le lunghe passeggiate a piedi o a cavallo, l’alpinismo, la lettura, la corrispondenza e i vari incontri con gli amici distinti da lunghe chiacchierate dinnanzi ad un buon bicchiere di genepì o di liquore di erba iva (achillea muschiata).

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    Matilde Serao nel 1890, due anni prima del viaggio in Valle d’Aosta

    In Val d’Ayas e in Valtournenche

    Oltre alla Valle del Lys, la giornalista partenopea esplorò anche la Valle di Challant (Val d’Ayas), attratta dai tre manieri medievali lungo il percorso, il Castello di Issogne, la Roccaforte di Verrès e il Castello di Graines a Brusson.

    Ad Ayas si fermò all’Osteria de l’Ours gestita dal bizzarro Rolandino che le fece assaggiare il più frugale e il più saporito cibo alpino composto da uova, burro, salame e miele, per poi pernottare nella parrocchia, ospite del curato, in quanto non esistevano hôtel. Si avventurò anche nella Valtournenche al cospetto della piramide di rocce e di geli del Cervino, conquistata da Edward Whymper nel 1865, dove scoprì l’orrido di Busserailles, scavato dal torrente Marmore, vera e propria attrazione per l’epoca, dove la famiglia Maquignaz aveva costruito un palco in legno rasente la parete per provare l’ebbrezza di affacciarsi nel vuoto e sfidare la paura.

    A bordo del muletto diretto al Breuil, alle falde del monte, provò «la impressione perfetta e rara che tutti gli assetati e gli affamati di vivere ricercano affannosamente, poiché sanno che per essa la loro vita avrà un’ora i cui tutta la sua potenza sarà centuplicata e che per essa un ricordo incancellabile farà vibrare sempre l’anima. […] L’affascinatore mortale è qui innanzi a voi, dalla base alla cima, tutto quanto nella sua immane massa, a immensi scaglioni di rocce sovrapposti a immensi ghiacciai […] così terrificante e seducente che vi è impossibile resistergli, mentre abbassate gli occhi e cercate di frenare il tremito dei vostri polsi!».

    L’Hôtel du Mont Cervin al Giomein, costruito a 2.200 metri di quota, ospitava anche una frenetica legione di alpinisti pronta a scalare il Cervino a testimonianza del crescente sviluppo dell’alpinismo sportivo.

    Courmayeur

    Nel mese di agosto il suo viaggio proseguì alla volta di Courmayeur, così bella e così fresca innanzi agli eterni ghiacci del suo maestoso Monte Bianco, dove incontrò la guida alpina Michel Petigax che nel 1900 accompagnò il Duca degli Abruzzi, Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, assiduo frequentatore della cittadina, nella famosa spedizione. Viene narrata anche l’ascensione alle Demoiselles anglaises, un insieme di guglie nel massiccio del Monte Bianco simili ad un pauroso tridente, quando nell’estate 1901 conquistò la Punta Jolanda (3.593 m) così chiamata in onore della primogenita di Vittorio Emanuele III ed Elena di Savoia, nata il 1° giugno.

    L’autrice descrisse anche il suo ritorno dall’ascensione «sulla bianca via che dal ghiacciaio della Brenva passa per Entreves, costeggiando il Monte de la Saixe, presso il ponte di legno sotto cui spuma fragorosa e bianchissima la Dora, […] con un passo elastico e saldo, col viso rosso dal sole alpestre e dal gelo notturno delle grandi altezze, sotto il suo grande cappello di feltro, taciturno, tranquillo, […] come se venisse da una passeggiatina nei boschi», mentre gli abitanti, sparsi nelle viottole, lo salutavano a colpi di mortaretto come in un’entrata trionfale.

    Notre-Dame-de-la-Guérison

    Matilde Serao si recò anche al Santuario alpino di Notre-Dame-de-la-Guérison, abbarbicato sovra un ciglio di un alto precipizio a 1.440 metri nella Valle dell’Allée Blanche, l’odierna Val Veny. «Nostra Donna della Salute è stata ricostruita sette volte, poiché in inverno è costantemente minacciata dalle frane e dalle valanghe. Di estate, con le vie appena accessibili, vi si dice messa ogni domenica, a un’ora fissa, che tanta gente pia viene ad ascoltare, da lontano, d’assai lontano, ma ciò solo per tre mesi».

    Come oggi, anche nel 1892 le pareti del santuario ospitavano numerosi ex voto di coloro che ricevevano la grazia: l’autrice narra che il Duca degli Abruzzi vi fece dire una messa di requie per l’anima di Felice Ollier, la guida alpina di Courmayeur che perse la vita a soli trent’anni durante la spedizione al Polo Nord, al quale dedicò anche il monumento presente nella piazza Abbé Henry di fronte alla Chiesa parrocchiale di Saint-Pantaléon.

    Il testo riportato sul monumento che rappresenta un cane con la slitta cita: «A Felice Ollier, guida alpina, scomparso sui ghiacci dell’Oceano glaciale artico nella spedizione colle slitte diretta al Polo Nord. Marzo 1900. Luigi di Savoia». Anche la meridiana posta sulla parete di Maison Guédoz, realizzata nel 1920 dal noto gnomonista genovese, il Capitano Enrico Alberto D’Albertis, e restaurata nel 2017, è dedicata alla guida scomparsa. Sul quadrante riporta dei versi dedicati alla spedizione: «Mesta Custode sto segnando l’ore presso la Croce Santa che rammenta di valdostana guida il gran valore. Ghiacci polari, tropicali ardori, tutto provaste fiere Genti Alpine, anco di Guerra i barbari furori». Le guide di Courmayeur accompagnarono il Duca degli Abruzzi nelle sue spedizioni anche sulle montagne africane.

    Matilde Serao al colle del Piccolo San Bernardo

    La penultima tappa del suo viaggio fu il Piccolo San Bernardo, dove a 2.200 metri soggiornò all’ospizio fondato nel 1039 da san Bernardo da Mentone e gestito dall’abbé Pierre Chanoux per conto dell’Ordine Mauriziano, a cinque ore da Courmayeur: «la via è veramente ottima perché costantemente percorsa da carrozze, carri, viandanti, alpinisti, ciclisti e persino da automobilisti. Si percorre tutta la deliziosa valle della Thuile, cara nella memoria di chiunque l’ha percorsa una sol volta, tanto ella è pittoresca, ombrosa, fresca, col suo bianchissimo ghiacciaio del Ruitor all’orizzonte. […] Un silenzio alto è intorno, infranto solo dai campanelli de cavalli che ci trasportano e tinniscono […]; allo squillo argentino ecco, dall’ospizio, per la rozza strada esterna, i grandi cani di san Bernardo […]: noi siamo placidi e curiosi touristes, niente altro, e pur guardiamo questi cani con tenerezza, pensando a quante esistenze umane […] hanno dato la salvazione della vita».

    Tutti i viandanti venivano accolti, cibati e ospitati sino a tre notti gratuitamente, mentre i ricchi provenienti in carrozza sono tenuti a pagare una tassa fissa di L. 2.50 per colazione e pranzo a base di carni fresche, latte, uova, tè, biscotti inglesi, cioccolata, frutta e pane fresco. «Le stanze del secondo piano, le migliori, valgono meglio, per la nitidezza, di quelle di molti alberghi, e vi è una piccola biblioteca e vi è la cappella; vi è insomma tutto un piccolo mondo in quell’alta solitudine». Secondo quanto riportato da Matilde Serao, ogni anno al Piccolo San Bernardo venivano ospitate tra le dodici e le quindicimila persone da metà luglio a metà settembre.

    A settembre, si torna a casa

    Il soggiorno della giornalista in Valle d’Aosta si concluse nel mese di settembre nella comoda e decente stazione ferroviaria di Aosta, inaugurata nel 1886, per rientrare a casa, spendendo ancora qualche parola sulle condizioni di viaggio sui treni dell’epoca dove il passeggero veniva trasportato come un pacco di carne e di cenci non vedendo e non capendo nulla, arrivando alla stazione d’arrivo instupidito ed esausto dalla tortura ferroviaria, fastidiosa fino all’esaurimento nervoso e noiosa fino alle lacrime. Matilde Serao lasciò la Valle d’Aosta in preda a una segreta nostalgia. 

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    Matilde Serao con Eleonora Duse Francesco Paolo e Tristan Bernard, nel 1897 (c) Public Domain Giuseppe Primoli (1851–1927) Wikimedia Commons

    Credits

    (in parte tratto da L’apporto della Famiglia Reale allo sviluppo turistico
    della Valle d’Aosta da metà Ottocento al 1946
    , tesi di Laurea magistrale all’Università della Valle d’Aosta, anno 2021, per gentile concessione di Caterina Pizzato. Abbiamo aggiunto i titoli dei paragrafi, il titolo, qualche minimo aggiustamento per la lettura e con i grassetti. Alcune note di interesse sono inserite come incisi. Le immagini sono a cura della redazione di Nos Alpes).

    Matilde Serao è stata anche oggetto di un libro di Chantal Vuillermoz, edito poco dopo, nel 2023, Alla montagna debbo ritornare. Donna Matilde Serao, villeggiante in Valle d’Aosta nell’estate 1892 (tipografia Valdostana).


    LEGGI ANCHE: Le Chasses Royales di Vittorio Emanuele II in Valle d’Aosta, di Caterina Pizzato

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