La Francia dice no alla “fast fashion” (in francese “mode éphémère”), ovverosia i capi di abbigliamento a basso costo e di scarsa qualità promossi da marchi stranieri o da siti di acquisto online. L’iniziativa si deve all’approvazione, durante la seduta dell’Assemblea nazionale dello scorso giovedì 14 marzo, di un nuovo disegno di legge a introduzione di nuove tassazioni e sanzioni.
La Francia e la “fast fashion”
Stando a quanto reso noto dall’Agence de l’Environnement et de la Maîtrise de l’Energie (ADEME, Agenzia dell’Ambiente e della Gestione dell’Energia), ogni anno nel mondo vengono venduti più di 100 miliardi di capi di abbigliamento. In Francia tali cifre sono aumentate esponenzialmente nell’arco di un solo decennio, raggiungendo i 3,3 miliardi di prodotti in commercio, anche più di 48 per ogni abitante del Paese.
Tale boom si deve in parte al proliferare della cosiddetta “fast fashion”, marchi che immettono sul mercato numerosissimi modelli dal prezzo conveniente, spingendo l’utenza ad adottare un approccio quasi “usa e getta” alla moda. Una delle etichette più diffuse in tale senso è l’azienda cinese Shein, che produce in media più di 7.200 nuovi prodotti al giorno e mette a disposizione dei consumatori più di 470 mila proposte.
Proprio sotto la sua influenza, come reso noto dall’Istituto Francese della Moda, anche le altre etichette francesi ed europee tendono maggiormente a virare verso la cosiddetta “moda effimera”. Incrementare i volumi delle proprie collezioni e prevedere una politica di convenienza economica va però in favore di una forma di clientela quantomai impulsiva verso il rinnovamento, con relative conseguenze a livello ambientale, sociale ed economico.
Le ricadute della “moda effimera”
Secondo quanto monitorato dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, l’industria tessile è a oggi responsabile del 10% delle emissioni globali di gas serra; in aggiunta essa provoca netti impatti sulla natura in termini di inquinamento del suolo e delle acque oltre che di danneggiamento alle specie viventi che abitano tali ecosistemi.
Guardando al versante socio-economico, poi, l’imprenditoria della moda si configura quale uno dei settori maggiormente deficitari in Francia, con più di 12 miliardi di euro di perdite, pari a oltre il 20% del deficit complessivo del Paese. Tale dato comunicato dalla Direzione generale delle Dogane e dei Diritti Indiretti (DGDDI) si spiega semplicemente perché il settore tradizionale dell’abbigliamento francese trova sempre più difficoltà nel fare fronte alla concorrenza dei Paesi terzi e in modo particolare orientale; qui, difatti, già da diversi decenni sono state delocalizzate numerose serie di produzioni per permettere un duplice risparmio quanto a manodopera e materie prime.
Il disegno di legge per la “fast fashion” in Francia
Il disegno di legge proposto da Anne-Cécile Violland assieme ad altri ventinove deputati e grazie al quale la Francia intende tassare i capi di “fast fashion” si compone di tre diversi articoli. Deposto in Assemblea nazionale lo scorso martedì 30 gennaio e approvato lo scorso giovedì 14 marzo, esso mira a promuovere una filosofia di moda più sostenibile capace di ridurre l’impronta dell’uomo sull’ambiente a lui circostante.
Il primo articolo domanda di “fornire ai consumatori maggiori informazioni e a sensibilizzarli sull’impatto della moda effimera nonché sulle possibilità di riutilizzare e riparare abiti e accessori”.
Il secondo articolo chiede che “i contributi finanziari versati dipendano anche dalle ricadute ambientali e dalle emissioni di carbonio della produzione e dal fatto che facciano o meno parte di un approccio commerciale a vita breve“. Previste anche sanzioni sino a 60 mila euro “basate su criteri quali la sostenibilità e la riciclabilità” i cui introiti andranno a finanziare la raccolta e il trattamento dell’usato ma anche le iniziative di ricerca, riutilizzo ed eco-design delle aziende più virtuose.
Alfine il terzo articolo vuole “vietare la pubblicità per le imprese e i prodotti che si occupano di “fast fashion””, allo stesso modo in cui la legge “Clima e resilienza” ha proibito la pubblicizzazione dei combustibili fossili o del “greenwashing”.