La Svizzera attira sempre più frontalieri anche dalle regioni di confine italiane, e si fa fatica anche a capire l’ampiezza del fenomeno. Il convegno che si è tenuto ad Aosta il 15 maggio, organizzato da Unipol ma in sostanza sulla spinta dei settori per i frontalieri delle organizzazioni sindacali italiane, ha offerto qualche spunto sulla situazione percepita e su alcune sfide in corso.
Il primo elemento emerso riguarda la percezione del fenomeno. Se altri territori vicini alla Svizzera hanno da tempo chiaro il tema dei frontalieri – tra queste per esempio il Genevois français – in Italia il tema è sostanzialmente marginale nelle politiche pubbliche nazionali.
Politiche italiane distratte ed erratiche
L’impatto del fenomeno è d’altra parte relativamente modesto in termini assoluti: si parla di 130 mila frontalieri italiani in Svizzera. La sola Lombardia nel quarto trimestre 2023 contava 4,5 milioni di occupati e circa 60 mila frontalieri: un rapporto quindi basso. Sono numeri però concentrati nelle zone prossime al confine, con effetti sociali ed economici. A livello locale il fenomeno è ben evidente, ma si fatica ad attirare l’attenzione delle politiche nazionali e a farne una priorità.
Lo sviluppo e l’applicazione dell’accordo bilaterale italo-svizzero sui frontalieri e sulla loro tassazione ne è l’esempio. Il nuovo modello di tassazione genera disaccordi, proteste ed effetti su una fascia numericamente limitata di popolazione e su un circoscritto numero di comuni di frontiera. Al convegno di Aosta hanno partecipato esponenti del governo regionale, Luciano Caveri per le politiche europee e Luigi Bertschy per le politiche del lavoro, ma ai paralleli incontri in Lombardia e Piemonte organizzati sempre da Unipol al massimo partecipa qualche sindaco, proprio in ragione delle tensioni che si generano e della difficoltà nel trovare soluzioni alla questione.
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Secondo diversi interventi, le politiche nazionali italiane poi, incentivando la tassazione o sviluppando ostacoli di natura amministrativa, finiscono per favorire il trasferimento definitivo dei lavoratori in Svizzera. Sono stati formati in Italia e diventano residenti elvetici con permessi temporanei o definitivi.
Davvero si è percepito che non si tratta di una priorità politica nazionale. È talmente marginale che gli stessi numeri di parte italiana sono in continua discussione: uno studio prodotto a Varese e riportato al convegno indicava in 122 il numero dei frontalieri valdostani, mentre i dati dell’Istituto statistico svizzero, come recuperati dai colleghi del Corriere della Valle d’Aosta direttamente dagli uffici federali, ne contano 1700. L’università della Valle d’Aosta sta studiando il problema, e un contributo del professor Massimo Zanetti è stato ascoltato in sala.
L’attrattività svizzera sembra imbattibile
A monte vi è la capacità di attrazione della Svizzera. Da un lato, come è noto, vi sono salari più alti, a fronte, va tuttavia ricordato, di un costo della vita più elevato e di minori tutele del lavoratore, che può essere licenziato (come in altri Paesi occidentali OCSE) con una semplice lettera e senza motivazioni specifiche. Il denaro tuttavia, si è detto al convegno, non è il solo fattore: conta anche la progressione in carriera, la disponibilità di migliori strumenti e installazioni, la migliore organizzazione degli orari che favorisce una buona qualità della vita, servizi pubblici e privati efficienti e vicini, dai trasporti alla stessa sanità.
L’impiego in Svizzera per l’infermiere è migliore non solo per i soldi in busta paga, ma perché con largo anticipo conosce i propri turni senza variazioni improvvisate, così come le date delle proprie ferie. Può quindi meglio gestire il proprio tempo e la vita famigliare.
Da parte nazionale italiana il quadro sembra aggravato dalle politiche pubbliche. Diversi esponenti sindacali hanno ricordato che mentre due infermieri giungono all’età della pensione, solo uno ottiene il diploma per entrare nella professione. E nelle zone di frontiera, questo singolo nuovo infermiere tende ad andare in Svizzera.
La Svizzera tratta separatamente con ogni Stato da una posizione di vantaggio
Infine, si è capito che prima con il sistema degli accordi bilaterali e poi il rallentamento e la rottura del recente negoziato con l’Unione europea, il 26 maggio 2021, la Svizzera è riuscita a trattare, anche sul tema dei frontalieri, separatamente con i singoli Stati membri da un posizione di forza relativa.
Vi sono accordi distinti con l’Italia, la Francia, la Germania e l’Austria. Le differenze sono in alcuni casi sensibili, per esempio sui limiti dello smart working, con una soglia del 40% per la Francia e del 25% per l’Italia. Con ciò la Svizzera, pur coinvolta nel pieno degli scambi economici con l’Unione europea, gestisce i singoli interessi massimizzando i benefici, nella logica del “cherry picking” di cui si parlò con la Brexit.
Benché al convegno sia stata sottolineata l’importanza della cooperazione Interreg (che è di nuovo bilaterale tra ogni Stato membro e la Svizzera, pur in una cornice simile), è parsa invece necessaria una cooperazione tra i territori frontalieri dei diversi Stati membri dell’Unione europea, per esempio tra le regioni frontaliere di Italia, Francia, Germania.
Le regioni e i comuni italiani coinvolti ne trarrebbero senz’altro beneficio. Per esempio, già nel recente incontro tra i comuni gemellati di Saint-Christophe e di Valserhône, nel polo ginevrino francese, si è capito che vi sono opportunità di dialogo anche sul tema dei frontalieri.
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