L’alpinismo non è soltanto brivido della vetta e attrazione verso le sfide estreme, è anche talvolta oscuro terrore e abisso di incertezza: lo sa bene Simone Moro, vittima nel 2019 di un incidente in quota quasi costatogli la vita. Egli ricostruisce con straordinaria lucidità tale drammatico episodio nel suo “Ho visto l’abisso”, un viaggio nel significato profondo del rischio, della paura e della resilienza tanto in montagna quanto nella vita.
Edito nel novembre del 2020 da Rizzoli, esso è acquistabile direttamente sul sito web della casa al prezzo di 13,00 euro per la versione cartacea oltre che nelle principali librerie italiane specializzate in narrativa.
Simone Moro
Nato nel 1967 a Bergamo, Simone Moro è una delle figure più rilevanti dell’alpinismo contemporaneo oltre che un appassionato aviatore e un prolifico scrittore di volumi dedicati alla montagna. Egli gode del merito di avere scalato otto dei quattordici ottomila nonché di detenere il record di prime ascensioni invernali su quattro di essi, ovverosia Shisha Pangma (2005), Makalu (2009), Gasherbrum II (2011) e Nanga Parbat (2016).
La sua carriera inizia presto, prima con l’arrampicata tra le vette delle Dolomiti e sino all’Himalaya, dove egli compie oltre 36 spedizioni, spesse volte in condizioni proibitive, sperimentando il pericolo dritto sulla propria pelle. Nel 2001, durante un tentativo di concatenamento Everest-Lhotse, egli rinuncia alla sua impresa per soccorrere un alpinista inglese ferito, un gesto che gli vale la medaglia di oro al valore civile.
L’abisso
Nel suo “Ho visto l’abisso” Simone Moro racconta il tentativo di completare la traversata invernale del Gasherbrum I e del Gasherbrum II (Himalaya) senza aiuti e con attrezzatura leggera datato 2019. Il suo obiettivo è ripercorrere l’itinerario storico portato a termine da Reinhold Messner e Hans Kammerlander nel 1984 replicandolo però in condizioni climatiche estreme al fianco della compagna di cordata Tamara Lunger.
Tuttavia, la montagna si rivela più ostile di quanto ambedue avevano previsto, rendendo il ghiacciaio un labirinto di crepacci instabili trasformato dai cambiamenti climatici e dai terremoti. Durante una fase della scalata, egli precipita per oltre venti metri all’interno di uno di essi e qui resta sospeso a testa in giù, ma viene salvato dalla prontezza di lei dopo un recupero estenuante ma urgente.
Tale episodio segna profondamente l’alpinista e lo porta a riflettere sul valore del rischio, sulla fragilità della vita e sulla forza necessaria per risollevarsi dopo una caduta e un salvataggio in extremis da momenti fisici e psicologici bui. Tra le pagine, egli traccia la cronaca della sua impresa ma si interroga anche su che cosa significhi davvero l’“abisso”, una voragine nel ghiaccio e il peso di fallimento e dolore.
L’ultima spedizione e la rinuncia al Manaslu
Nel gennaio di quest’anno, Simone Moro tenta una nuova avventura, ovverosia la scalata invernale del Manaslu insieme a Nima Rinji Sherpa e Oswald Rodrigo Pereira, con un approccio in stile alpino, senza ossigeno né corde fisse. Dopo settimane di attesa al campo base, il team si trova dinnanzi a condizioni meteorologiche proibitive, con venti che superano i 150 chilometri orari e la palese impossibilità di procedere in sicurezza.
Di qui la decisione, seppure non poco sofferta, di annullare la spedizione nella consapevolezza che in montagna il rispetto per la natura e per i propri limiti è fondamentale. Nonostante il fallimento, il team lascia il Manaslu con uno spirito di collaborazione e amicizia, pronto a ripartire per nuove missioni future ad apprendere non tanto dalla gloria del traguardo bensì piuttosto dagli insegnamenti sparsi lungo il cammino.
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