Christiane Dunoyer, direttrice del Centre d’études francoprovençales René Willien, ci accompagna con leggerezza e competenza nell’universo linguistico della cultura alpina, nella sua diversità. Ripubblichiamo il suo articolo, apparso in lingua francese sulla rivista Augusta nel 2020, per gentile concessione dell’Associazione Augusta d’Issime.

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Comunicare a livello alpino

Nell’ambito dei miei studi di antropologia linguistica, mi sono spesso confrontata con il fenomeno dell’intercomprensione e con le molteplici strategie comunicative messe in atto tra i parlanti: il desiderio di capire e di essere capiti spinge gli individui a fare appello a tutte le loro facoltà intellettive, comprese alcune competenze che la maggior parte di noi ignora e che non vengono particolarmente valorizzate o sviluppate a scuola.

Infatti, le lingue europee hanno spesso radici comuni che ci permettono di capire frasi in una lingua che non abbiamo studiato, “senza sapere perché”. Inoltre, per comunicare non usiamo solo le parole, ma anche le espressioni del viso, l’intonazione della voce, i gesti e così via.

A seguito della mia esperienza nel campo del francoprovenzale, sia come parlante attiva che come ricercatrice (perché uso il francoprovenzale come lingua franca nel mio lavoro scientifico, ben oltre i confini della Valle d’Aosta, ritenendo che la lingua madre sia il modo migliore per esprimere i sentimenti e i pensieri dei miei interlocutori), ho riflettuto a lungo sulla capacità di adattamento delle persone che vivono in un territorio in cui la variazione fonetica e lessicale accompagna ogni loro spostamento.

Mentre oggi la maggior parte dei nostri contemporanei padroneggia una o più lingue ufficiali standardizzate e conserva la propria lingua madre al massimo a livello di villaggio o di regione, poco meno di un secolo fa situazione era opposta e nelle fiere e nei mercati le lingue dei villaggi erano la maggioranza.

La nozione di intercomprensione tra lingue strettamente affini

Per i sociolinguisti, evocare questa pratica suggerisce la nozione di intercomprensione tra lingue strettamente imparentate. Ma come antropologi alpini, sappiamo quanto possano essere frammentate le lingue, con caratteristiche arcaiche, separate da alloglotti e interessate da movimenti di popolazione, anche su lunghe distanze (individuali o collettivi, stagionali o più eccezionali), quindi ci poniamo una domanda: “Che cos’è una lingua strettamente imparentata?”.

Analizzando le pratiche linguistiche locali e i fenomeni di intercomprensione, appare evidente che nell’area oggetto di studio possono essere evocati almeno due tipi di prossimità: la prossimità dovuta all’appartenenza alla stessa famiglia linguistica (come le varietà francoprovenzali appartengono all’area francoprovenzale e quelle walser all’area germanica) e la prossimità geografica (come il francoprovenzale di Gaby o Fontainemore e il töitschu di Issime, che convivono pur appartenendo a due famiglie linguistiche distinte, quella romanza e quella germanica).

Per chiunque lavori sulle pratiche e sulle rappresentazioni delle Alpi, i confini tracciati dalle famiglie linguistiche non possono costituire una barriera.

Questo mi ha permesso di raccogliere un’ampia gamma di dati sulle strategie di comunicazione nell’area franco-provenzale delle Alpi (Valle d’Aosta, Savoia storica, Vallese, Valli di Susa, Lans e Soana) e anche più lontano (Vallée du Lys, Alto Vallese, Uri, Oberland Bernese).

LA Tradichon

Quando nel 2012 ho realizzato un’inchiesta televisiva, ho dovuto affrontare una duplice sfida: rispettare il protocollo scientifico e allo stesso tempo attirare l’interesse del pubblico. Il titolo del programma era volutamente problematico, “LA Tradichon” (un tema ricorrente in Valle d’Aosta, una parola piuttosto abusata…), ovviamente provocatorio, con l’obiettivo di interpellare il maggior numero possibile di persone per far emergere la pluralità delle rappresentazioni identitarie, utilizzando tre domande molto semplici: “Quale oggetto sceglierebbe per un Museo della tradizione valdostana? Quale parola (in dialetto valdostano) vorresti condividere con il pubblico del programma?”.

Nel corso degli anni e delle numerose edizioni, le domande hanno subito diverse variazioni: ad esempio, nel 2015 è stata introdotta una quarta domanda, “Di quale oggetto o pratica tradizionale vorresti sbarazzarti, se potessi?” e i giochi con il pubblico hanno reso la nostra indagine ancora più interattiva: indovina l’oggetto misterioso, canta la tua canzone preferita, riconosci la cima di una montagna…

Nel corso delle stagioni, la nostra squadra ha viaggiato per tutta la Valle d’Aosta e nel 2019 è arrivata a Issime. I colloqui con il presidente Michele Musso sono stati decisivi: non solo volevo trovare risposte alle mie domande e filmare oggetti bellissimi, ma volevo anche rendere udibile la lingua locale, facendo il possibile perché tutto il pubblico del programma potesse capirci e seguirci senza troppe difficoltà.

Interviste in Töitschu

Così è nata l’idea di registrare le interviste in töitschu, creando un’esperienza unica per i telespettatori, richiedendo loro uno sforzo, certo, ma anche un assaggio dei suoni di una lingua probabilmente poco conosciuta, senza sottotitoli o voci fuori campo: un incontro ravvicinato di rara intensità…

Troppo razionali, troppo preoccupati di non riuscire a creare le condizioni per una “corretta comprensione” del contenuto parlato, finiamo spesso per concentrarci esclusivamente sul significato, dimenticando di ascoltare la bellezza dei suoni, il ritmo specifico di ogni lingua e, soprattutto, privando i parlanti dell’immenso piacere di parlare la propria lingua madre.

Avete mai guardato negli occhi qualcuno mentre pronunciava qualche parola nella lingua che ama? Avete mai misurato la gratitudine che vi dimostra per il solo fatto che accettate di ascoltarli? Anche questa è comunicazione, ed è importante almeno quanto il messaggio trasmesso dalle parole pronunciate…

Avendo spesso ascoltato lingue che non conoscevo, ho preso l’abitudine di memorizzare parole qua e là, prima per salutare e ringraziare, poi per chiedere informazioni, ma spesso senza preoccuparmi della loro utilità pratica.

Ho imparato a riconoscere i radicali germanici, per esempio, che ritrovo di regione in regione, anche quando i suffissi cambiano molto: nomi, verbi, aggettivi, il soggetto di una frase… abbastanza per capire di cosa sta parlando il mio interlocutore. Non visito spesso la Vallée du Lys, ma dopo pochi minuti di conversazione, la magia si ripete e si realizza quella condivisione che per me è la spezia della vita.

Condividere il toïtschu

Con Bruno Linty, che capiva perfettamente il francoprovenzale, lo scambio è stato meraviglioso, perché l’osmosi è avvenuta in entrambi i sensi. Era divertente e commovente, e la conversazione è diventata presto molto spontanea.

Lui raccontava la storia, io la ripetevo in dialetto per il pubblico francoprovenzale, lui proseguiva con la sua spiegazione e io continuavo con la traduzione, guardando nella telecamera ma cercando l’approvazione di Bruno, per essere sicuro di aver capito bene. Fino al momento in cui è scivolato nel mio dialetto, lo scambio è stato così fluido, ma lui si è subito rimesso in pari e abbiamo continuato con lo stesso schema di prima.

In pochi minuti di conversazione, stavo testando il potere dell’intercomprensione e avevo appena registrato un esempio molto eloquente di accomodamento.

È quello che i sociolinguisti chiamano la tendenza di due interlocutori a perseguire un discorso armonioso avvicinandosi sempre di più al discorso dell’altro, scambiando le rispettive parole, fondendo gli accenti, perché siamo, più o meno, esseri sociali.

Ascoltatori consapevoli del loro ruolo

Le pratiche umane a volte traducono in parole situazioni conflittuali e possono persino illustrare un certo rifiuto dell’alterità e della diversità percepite come una minaccia più o meno reale, ma fondamentalmente tutti noi viviamo per scambiare con i nostri simili e per costruire prossimità. Per creare ponti, sia in senso metaforico che letterale, come quelli che attraversano molti dei nostri torrenti.

Le lingue vicine potrebbero essere molto più vicine e avrebbero maggiori possibilità di perpetuarsi se diventassimo ascoltatori consapevoli del ruolo che possiamo svolgere, pensando ai significati plurali della comunicazione e fidandoci un po’ di più di noi stessi, perché imparare qualche espressione in un’altra lingua richiede solo pochi minuti, ma l’effetto dura molto più a lungo.

Un’altra intervista ha seguito quella di Bruno lo stesso giorno. Luisella Ronc parla attivamente il töitschu, la sua lingua madre, ma anche il francoprovenzale, per aver lavorato a lungo a contatto con il pubblico in un ufficio di Aosta.

Mettere le persone a proprio agio

Semplicemente per essere utile, per mettere a proprio agio i suoi interlocutori, ha interiorizzato la loro lingua, e ce ne ha dato prova traducendo le sue stesse frasi in töitschu. Per farlo, ha dovuto superare uno scrupolo: esitava, si chiedeva se fosse in grado di parlare una lingua che non fosse la sua lingua madre.

Con il tempo, ho scoperto che a volte le persone si rifiutano di parlare per paura di essere criticate. Parlare in televisione ha un forte valore simbolico e per qualcuno parlare una lingua minoritaria è un po’ come porsi come portavoce di una comunità linguistica. Questo può innescare riflessioni sulla legittimità di chi parla: si ha il diritto di parlare la propria lingua a nome della comunità o di parlare la lingua dell’altro senza sembrare un usurpatore di identità?

È anche possibile, molto più semplicemente, parlare la lingua che ha senso in un certo contesto per amore di quella lingua, per renderla udibile, per farla esistere e per trasmetterla a orecchie che speriamo siano sempre più attente.

È così che Luisella Ronc ha accettato la sfida: quel giorno tutti si sono messi a disposizione, sforzandosi di aiutarsi reciprocamente per mantenere le lingue alpine vive e un po’ più vicine. Nello spirito de La Tradichon, perché i popoli delle Alpi ci hanno dimostrato di sapersi muovere nello spazio e di saper comunicare con ricchezza.

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In Augusta, n°52/2020, p.36-40, in lingua francese in originale, ripubblicato per gentile concessione dell’Associazione Augusta d’Issime.

Christiane Dunoyer è dottoressa in Antropologia e direttrice del Centre d’études francoprovençales René Willien, a Saint-Nicolas, in Valle d'Aosta.

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