Su di un cielo blu notte zampillano utensili e giocattoli in legno dai colori cangianti, come illuminati dall’ultimo raggio di sole. È il manifesto della 1025esima Fiera di Sant’Orso realizzato da Pier Francesco Grizi. Espressione giocosa dell’artigianato valdostano, tra gli oggetti raffigurati non manca la sagoma inconfondibile di un sabot. Fra i manufatti tipici, questa calzatura ricavata da un solo pezzo di legno, vanta una tradizione più antica della fiera stessa che derivò, si racconta, dalla consuetudine dei canonici di sant’Orso di distribuire, alla vigilia della festa del Santo, che cade il primo giorno di febbraio, dei sabot ai poveri.
XIX e XX secolo, nel laboratorio del sabotier
La produzione dei sabot costituiva uno degli aspetti della cultura materiale delle popolazioni alpine e come tale trova un proprio spazio didattico al Museo Nazionale della Montagna “Duca degli Abruzzi” di Torino. Qui si osservano gli strumenti che l’artigiano specializzato, il sabotier, impiegava per realizzare il proprio manufatto e dei sabot nelle diverse fasi di lavorazione.
Si tratta di attrezzi dell’inizio del 19. secolo usati in Val d’Ayas, territorio alle propaggini del Monte Rosa, dove la produzione dei sabot, superato l’autoconsumo, divenne predominante e il loro commercio raggiunse la pianura.
Solidi eppure leggeri, resistenti all’acqua e di ottima capacità termica, i sabot furono usati dai contadini nel vercellese per il lavoro nei campi e persino, ai piedi di fanciulle e bambini, per pattinare d’inverno sopra tratti d’acqua ghiacciata.
Durante la prima guerra mondiale vennero assegnati ai soldati perché meglio sopportassero il terreno umido delle trincee. Sono queste alcune delle storie contenute nel volume I sabotier d’Ayas, il 49esimo dei gloriosi “Quaderni di cultura alpina”.
Ma il sabot è una di quelle cose, fatte dall’uomo, la cui forma risulta comune a più culture e pressoché immutata nel tempo.
XVIII secolo, nel capanno ai margini del bosco
Retrocedendo, nella settecentesca Encyclopédie, o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, di Diderot e D’Alambert, vi è una tavola, e relativa spiegazione, dedicata alla fabbricazione dei sabot. Annoverato nell’economie rustique dell’epoca, il mestiere è mostrato nell’ambiente in cui si svolge e nelle sue fasi salienti, quindi, come in un’esposizione museale, si allineano e descrivono gli attrezzi necessari.
Se nelle valli alpine, non di rado, era nelle stalle che si intagliavano i sabot, nella realtà francese i fortes ouvriers sono all’opera all’interno e all’esterno di un capanno, che si precisa costruito come il tetto di una ghiacciaia e ricoperto di paglia lungo le falde. In questo specifico caso forse non è inutile avvertire che nelle tavole di accompagnamento ai volumi di testo dell’Encyclopédie, i muri delle fabbriche, dei laboratori, delle botteghe sono abbattuti così da mostrarci quanto avviene all’interno. La cabane dunque presenta un’apertura alla sommità che serve da finestra e da camino e sorge in una radura la quale ha come sfondo la zona boscosa da cui provengono i tronchi di legno utilizzati.
XIV secolo, nella bottega del maestro d’Oropa
Lasciato alle spalle – nel nostro viaggio a ritroso – l’antico regime, le testimonianze inerenti alla cultura materiale delle classi popolari, in montagna come in città, si rarefanno. Quelle che restano divengono così oltremodo preziose. Ed è soprattutto l’arte sacra a fornircele in un affascinante e irripetibile commistione di terra e di cielo.
Nel Museo di arte antica di palazzo Madama a Torino si conserva un paliotto ligneo di forme gotiche che solo in tempi recenti don Paolo Papone ha riconosciuto essere stato parte dell’altare maggiore della chiesa collegiata dei Santi Pietro e Orso ad Aosta. Ai lati della formella centrale, con l’Incoronazione della Vergine, si dispongono i santi, fra cui i titolari della chiesa, Pietro e Orso, e sant’Agostino, modello della spiritualità dei canonici regolari della Collegiata. Il paliotto è attribuito al Maestro della Madonna d’Oropa, uno scultore e intagliatore valdostano a capo di una fiorente bottega.
Nel paliotto, Sant’ Orso – con al collo una lunga stola di seta frangiata, provvisto del bastone da priore e con tre uccellini attorno – è raffigurato in un atteggiamento caritatevole: a dei poveri in ginocchio, coperti solo di una misera tunichetta e scalzi, egli porge una calzatura. Questo episodio non è contenuto nelle Vite che si conoscono del santo, ma è già illustrato in un capitello (n. 32) del chiostro romanico della Collegiata.
Il paliotto intagliato nel legno di cimbro, dipinto, argentato e dorato, è ricchissimo di particolari riguardanti il modo di vestire. I santi indossano tessuti di seta alla moda, a motivi geometrici oppure a onde. Sant’Agostino ha ai piedi degli eleganti scarpini a punta con la tomaia in stoffa operata.
La calzatura che sant’Orso porge ai suoi poveri
La calzatura che sant’Orso porge ai suoi poveri invece è robusta e lo scultore ne dettaglia la forma: si distingue la suola, lo scavo per il tallone, la tomaia accollata che diviene linguetta, forse stretta da un cinturino. La policromia è andata perduta per cui dobbiamo accontentarci, però vediamo bene quale stupore e gratitudine mostrino i visi dei poveri. Si tratta di un sabot in miniatura?
Aosta, giovedì 30 gennaio 2025, ore 10 e 30. La fiera di Sant’Orso è iniziata. Piove. Mi fermo da un espositore fra le cui opere vi è una scultura miniaturizzata di un sabotier al lavoro, ed i sabot conclusi – nella finzione – sono appoggiati sul pavimento. Mi pare la persona adatta.
Gli mostro sul telefonino la foto del particolare della calzatura nel paliotto. A suo parere è un tipo di sabot, o meglio di zoccolo, con la tomaia di cuoio e provvisto di cinturino. Lo ringrazio. Si chiama Elio Sucquet e proviene da Saint-Vincent.
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