È ovvio pensare che la denominazione Madonna della Neve, assegnata a tante chiesette e oratori delle valli alpine tra cui quello di Forno Valstrona (Verbania), sia stata favorita dall’ambiente e dalle sue condizioni climatiche. Eppure, nel racconto miracoloso che è alle origini dell’intitolazione, la neve cadde a Roma durante una torrida estate della tarda antichità, il 5 agosto dell’anno 358.
Il miracolo della neve
Nella notte fra il 4 e 5 agosto, l’allora pontefice Liberio e due devoti sposi – il patrizio romano Giovanni e sua moglie, privi di figli e intenzionati a donare i propri beni alla Chiesa – furono visitati in sogno dalla Madonna che ordinò loro di erigere una chiesa nel luogo che avrebbe reso riconoscibile. Il mattino successivo una bianca coltre di neve disegnava sulla sommità del colle Esquilino il perimetro della futura Basilica di Santa Maria Maggiore.
Il libro dei conti
Nell’alta Valle Strona, in località Forno Valstrona, in frazione Otra, sulla sponda destra del tortuoso torrente da cui prende il nome la valle, sorge un oratorio dedicato alla Madonna della Neve.
La cura che gli abitanti tutt’oggi riservano alla chiesetta ha origini lontane, nasce con la fondazione stessa dell’edificio. E non si tratta di un’espressione retorica, ma di un’informazione che si ricava dalla lettura di un fascicoletto manoscritto dal titolo “Libro dell’oratorio della Madonna della neve 1639-1761”. Grazie a questo documento, conservato nell’archivio della chiesa parrocchiale di Forno Valstrona, conosciamo quasi per intero la storia dell’oratorio.
Ѐ l’ultimo giorno di luglio dell’anno 1639 quando si posa la prima pietra del nuovo luogo sacro. Otolino Ghelli, notabile del posto, acquisisce il privilegio di compiere tale atto, di forte valore simbolico, versando nella cassa dell’impresa una somma di denaro. Altri abitanti della frazione offrono, perché si mettano all’incanto ricavando così ulteriori denari, formaggi, capretti e animali da cortile, della canapa e persino un mantello.
D’ora in poi, nel “Libro” – d’obbligo in ogni gestione comunitaria dei beni e compilato dal curatore della “fabbrica”, eletto dai capi-famiglia – si annoterà con scrupolo tutto: le “entrate” sostanzialmente costituite dalle elemosine e le “uscite”, dapprima straordinarie perché dovute all’edificazione e arredo della chiesetta, in seguito ordinarie e spettanti alle pratiche liturgiche.
Va detto che il coinvolgimento dei laici nella creazione e nel mantenimento degli edifici di culto fu un preciso intento della Chiesa riformata, sicché il caso di Otra è eccezionale solo per la continuità della cura nel trascorrere dei secoli.
Il 5 di agosto, giorno della festa della Madonna della Neve, sotto il portichetto dell’oratorio ha ancora luogo l’incanto.
La commissione del dipinto di Forno Valstrona
Sono passati due mesi dalla fondazione dell’oratorio di Forno Valstrona quando si commissiona il dipinto destinato all’altare. Con una prassi arcaica, al pittore incaricato, Andrea Belanda, si forniscono tela e colori, questi ultimi acquistati in una bottega ad Omegna, sul lago d’Orta.
Sebbene si tratti di un pittore periferico, di cui nulla si sa, egli mostra di conoscere la tradizione iconografica del soggetto, sia nell’impianto compositivo, sia nei personaggi raffigurati. Tale tradizione, trascorsi i secoli medioevali, faceva capo alla tavola di Masolino da Panicale. L’opera, conservata al Museo nazionale di Capodimonte a Napoli, costituiva la parte centrale della pala che, dal terzo decennio del Quattrocento sino a circa la metà del secolo successivo, si trovava sull’altare principale della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma.
Nel dipinto per l’oratorio il pittore ripropone la stessa divisione che si osserva nel modello: due registri, uno superiore celeste e uno inferiore terreno, con una folla distinta: da una parte gli ecclesiastici, dall’altra i laici. E come nel modello il fatto accade nella contemporaneità.
Nel cielo del quadro valligiano vediamo la Madonna con il Bambino, affiancata dai Santi Pietro e Giovanni.
Il modo in cui il pittore raffigura la Vergine riecheggia la “Salus populi romani”, un’antica icona ritenuta taumaturgica conservata nella basilica romana e tradizionalmente considerata opera autografa dell’evangelista Luca.
Quanto ai due santi, la loro scelta è intenzionale e sancisce dei legami: a San Pietro, infatti, è dedicata la chiesa parrocchiale di Forno Valstrona, mentre San Giovanni conferisce il proprio nome al più antico ed impervio degli oratori frazionali, un piccolo edificio sopra Forno, in località Campello.
Il gruppo celeste, al quale partecipano angeli e cherubini, emerge da un festone di nuvole, il cui margine sottostante quasi coincide con il profilo ondulato dell’orizzonte. Nel registro inferiore del dipinto, attorno alla pianta innevata della futura basilica, vediamo a sinistra il gruppo di religiosi con in primo piano il pontefice.
Raffigurato di profilo, con lo sguardo rivolto alla Madonna che lui solo vede, ha il capo coperto dalla tiara ed è avvolto in un ampio piviale, che aprendosi scopre un camice di lino bordato di una trina; le sue mani sono calzate in guanti ornati di pietre.
Fra i laici, il primo piano spetta al benefattore che appare circondato da alcune donne di rango elevato. Essi indossano severi e rigidi abiti scuri, impreziositi da alti colli candidi orlati di merletto, in ossequio alla moda spagnola invalsa alla corte di Filippo II e quindi diffusasi nel resto d’Europa; i loro volti sembrano dei ritratti e nei panni del patrizio Giovanni della tradizione si possono forse scorgere le sembianze di Otolino Ghelli, fondatore dell’oratorio.
Un confronto interessante: nel 1642 nel “Libro dell’oratorio” si registra la spesa di 51 lire dovuta alla fattura di un paramento, ossia una pianeta di seta operata, bianca e rossa, completa di stola, manipolo e borsa da calice. La cifra impiegata per questo acquisto risulta identica a quella versata al pittore Belanda per il dipinto del Miracolo della Neve. I tessuti serici erano merce d’importazione costosa!
Il marchatto dell’ancona
Quattordici anni dopo la commissione del dipinto, nel 1653, gli abitanti della frazione di Otra ordinano ad Antonio Martello, appartenente ad una famiglia di artisti del legno di Campertogno in Valsesia, una pala d’altare o ancona (è questo il termine che compare nei documenti) in cui collocare la tela.
Configurate come strutture architettoniche a tempio, spesso arricchite da cariatidi, protomi animali e festoni vegetali, le ancone d’altare sono un’espressione originale e felice della cultura, maturata nell’età della Riforma cattolica, denominata Barocco alpino. La Valsesia, terra d’origine di Martello, ancora oggi custodisce nelle proprie chiese e oratori uno straordinario patrimonio di simili opere lignee.
Il “marchatto” dell’ancona di Otra, ossia la contrattazione, avviene il 15 settembre: l’intagliatore mostra il disegno ai rappresentanti della comunità i quali, dopo l’approvazione, si impegnano a versargli “quanto più presto sarà possibile” la somma di 250 lire.
A fine giugno dell’anno successivo l’opera viene “piombatta”, vale a dire che i diversi pezzi che la compongono – giunti in loco dopo essere stati realizzati in Valsesia – sono assemblati al di sopra della mensa dell’altare in modo perfettamente perpendicolare. Al centro del frontone che costituisce la sommità dell’ancona trova posto una statua già preesistente nell’oratorio e proveniente dall’area svizzera, a giudicare dai suoi caratteri stilistici: una Vergine con il Bambino entro una mandorla di raggi.
Per il suo lavoro Martello riceve un primo acconto di 100 lire. La comunità che annualmente racimola in elemosine all’incirca 50 lire, riuscirà a terminare il pagamento tre anni dopo.
Dal noce alla foglia oro
Il materiale con cui è realizzata l’ancona è il noce, un legno la cui superficie viene per solito lasciata a vista, a differenza del pioppo, molto usato localmente e destinato alla scultura policroma. E infatti per circa quarant’anni gli abitanti di Otra pregarono dinanzi al Miracolo della Neve incorniciato entro la solenne e scura ancona nella penombra del piccolo ambiente oratoriale.
Dopo di che tutto cambiò. Un generale modificarsi del gusto, con l’avvicinarsi del Settecento, dovette condurre alla decisione di affrontare l’onerosa spesa della doratura e della dipintura dell’opera.
Non si trattava di un lavoro facile. La preparazione gessosa, sottostante la foglia oro e il colore, quest’ultimo riservato agli incarnati, doveva essere sottile, così da non ottundere l’eccellente intaglio di Antonio Martello.
Tale trasformazione di cui il “Libro dell’oratorio” tace l’autore, costò alla comunità di Forno Valstrona ben 400 lire. Furono denari ben spesi. L’effetto di luce è tutt’oggi sotto i nostri occhi.
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